Nostra traduzione da Electronic Intifada
L’anno scorso Hafez Omar, un grafico ed attivista palestinese, ha postato su Facebook l’illustrazione di un palestinese senza volto in una prigione israeliana. Nel giro di alcune ore l’immagine era circolata per tutta la rete.
L’immagine era molto semplice: un volto senza tratti somatici attraversato da una linea marrone ed uno sfondo verde. Probabilmente la sua semplicità è stata la sua più grande forza perchè ha fornito un’illustrazione chiara agli attivisti che volevano sollevare l’attenzione sugli scioperi della fame intrapresi dai prigionieri politici.
Omar vive a Tulkarem (West Bank) ed il suo lavoro è ispirato dal movimento di resistenza popolare in Palestina.
Questa è un’intervista rilasciata a Daryl Meador, un collaboratore di The Electronic Intifada.
Daryl Meador: Come hai iniziato ad occuparti di design? Dove hai studiato?
Hafez Omar: Ho studiato all’accademia di belle arti all’An-Najah University di Nablus dal 2000 al 2005. Ho studiato architettura d’interni ma non ho mai lavorato nel campo; ho sempre lavorato nel graphic design. All’università facevo parte del movimento studentesco e progettavo i manifesti. Ho cominciato così: è stato parte del mio coinvolgimento nella situazione. Erano gli inizi della seconda intifada, che a Nablus è stata parecchio intensa sia politicamente che a livello di scontri. Parecchia gente ha fatto politica, soprattutto studenti visto che An-Najah è una delle più grandi università della Palestina.
DM: Che tipo di attività portavano avanti gli studenti?
HO: All’inizio dell’intifada il movimento studentesco ebbe un ruolo importante nell’organizzare le manifestazioni, abbiamo organizzato cortei ai checkpoint, dopodichè c’erano le attività interne all’università sull’intifada e per i vari partiti politici. Ogni partito cercava di coinvolgere la gente nella propria ideologia e nel proprio approccio alla lotta.
Io avevo il compito di pubblicare una rivista mensile di sinistra, Handala. Ogni mese scrivevamo alcuni articoli e stampavamo alcune foto, ed io montavo ed editavo il tutto.
DM: Come veniva stampata?
HO: La fotocopiavamo: il nostro gruppo non aveva molti soldi, anzi non ne avevamo proprio. In sostanza ci autotassavamo ogni mese per stampare circa mille copie da distribuire all’università.
DM: Ne hai ancora qualche copia?
HO: No, quando abbiamo lasciato Nablus ce ne siamo dovuti liberare perchè gli israeliani entravano nelle case in cerca di studenti e se ti trovavano con quella rivista sarebbe stato un problema. Credo di avere uno o due file nel mio harddisk ma nessuna copia cartacea.
DM: I tuoi lavori grafici sono sempre legati alla situazione politica. Come vedi la relazione tra grafica ed attivismo politico?
HO: Questa è una vecchia tradizione in Palestina ed in molti altri posti nel mondo. Il contenuto politico viene trasmesso alla gente in molti modi, uno di quelli più interessanti è quello dei manifesti e delle immagini politiche. In Palestina abbiamo una tradizione di produzione di manifesti per i differenti partiti, e se tu guardi alla storia dei manifesti palestinesi puoi riconoscere le differenze tra i partiti, le ideologie e le rivendicazioni. Per questo considero ciò che faccio come il prosequio di ciò che è successo prima. Agli inizi degli anni ’60 i partiti hanno iniziato a mobilitare le persone grazie ai manifesti e alle riviste.
DM: Nella tua produzione noto dei riferimenti ai vecchi poster palestinesi, è una scelta voluta?
HO: Voglio riportare la vecchia tradizione, perchè i valori espressi da quei manifesti sono ancora validi. Sono stati utilizzati per mobilitare le persone per la liberazione, il ritorno e l’autodeterminazione, che sono ancora gli stessi obiettivi del popolo. Ma dopo Oslo i discorsi ufficiali hanno cambiato obiettivi, passando da questi principi alla costruzione dello stato, che è qualcosa contro cui mi batto. Credo ancora che non sia il momento e non ci siano le condizioni per iniziarlo: siamo sotto occupazione, il 70-80% della popolazione palestinese ancora vive profuga nei paesi circostanti o in giro per il mondo. Le colonie, la pulizia etnica e le demolizioni delle case continuano. Sto cercando di riportare i ricordi collegati a quei vecchi manifesti con questi tipo di linguaggio visivo.
DM: C’è qualche simbolo specifico che hai ripreso dai vecchi poster? Perchè?
HO: Uno è l’immagine della Palestina Storica. C’è confusione politica tra la soluzione dei due stati e dello stato unico e ciò si riflette anche negli strumenti di comunicazione visiva. Ad esempio le agenzie di stampa mostrano una mappa della Palestina composta dalla West Bank e da Gaza, ed è lo stesso con le immagini utilizzate per la costruzione dello stato. Per questo la mappa della Palestina Storica viene dalla storia della comunicazione visiva palestinese. Un altro elemento che ho resuscitato dai vecchi poster sono le immagini della lotta armata: spiegano politicamente cos’è la patria e per cosa stiamo combattendo.
Fondamentalmente uso questi due elementi ma cerco anche di concentrarmi sulla gente piuttosto che sui partiti politici. Ho tanti poster di esponenti politici ma la maggior parte di essi prova a raggiungere la gente, come si faceva una volta. Oggi i gruppi politici producono i manifesti per i propri alleati o per i propri membri, ma non ne vedo molti che si rivolgano alle persone in quanto palestinesi. Ciò che faccio dovrebbe rivolgersi a tutti e non solo ad alcuni.
DM: Ma ora – a differenza degli anni ’60 – abbiamo internet e si stampano meno manifesti. Tu le tue opere le pubblichi sempre e solo online?
HO: La cosa buona è che le creo e le carico online, la gende le scarica, le stampa e le usa alle manifestazioni. Non controllo questo processo, a volte mi chiedono qualcosa di adatto per la stampa ma di solito le pubblico solo online. Quando vedo delle persone che hanno stampato e stanno usando ciò che ho progettato lo prendo come un segnale che mi indica che sono ancora con la gente. Allora posso misurare il pubblico sentire e le opinioni delle persone riguardo gli avvenimenti. Questo è il modo in cui i miei poster assumono “un’esistenza fisica”: è la gente che li scarica e li utilizza.
DM: Mi ricordo che l’illustrazione marrone del prigioniero in sciopero della fame veniva utilizzato praticamente da tutti i miei contatti Facebook. È stato uno dei tuoi disegni più utilizzati?
HO: Per ora si. Nessuno ha delle cifre precise su quante condivisioni abbia avuto ma all’epoca tutto Facebook era diventato marrone. Non è stata una delle mie illustrazioni migliori ma sicuramente è stata quella di maggior successo.
DM: Cosa rappresenta il colore marrone?
HO: Viene dalla prigione: è la tuta che i prigionieri devono indossare quando sono in cella, sono costretti ad indossare quei vestiti con quei marchi. Una settimana fa ho fatto visita a mio fratello in prigione e la stava indossando. Hanno anche dei piccoli materassi dove possono sedersi, ed anche quelli sono marroni. Questi sono i colori che i prigionieri vedono quotidianamente.
DM: Tuo fratello quanto tempo ha trascorso in prigione?
HO: Otto anni. È stato condannato a nove anni, quindi l’anno prossimo sarà fuori.
DM: Perchè la tua pagina Facebook si chiama Hitan, che in arabo significa “muri”?
HO: Perchè quando ero un bambino sono stati una fonte di insegnamento. Non avevamo un sistema scolastico che ci parlasse della Palestina o della vita politica. Era la prima intifada ed io andavo a scuola a piedi guardando i muri coperti di manifesti e graffiti. Non era arte, era più uno strumento di comunicazione. Da lì ho imparato molto sui partiti politici, anche se ero molto giovane. La bandiera di Palestina era vietata e gli israeliani le controllavano, per questo i muri erano strumenti di comunicazione importanti. Così la mia pagina Facebook è una sorta di omaggio a questa tradizione palestinese.
DM: Una delle tue ultime opere è stata fatta per Bab al-Shams (la “tendopoli” costruita dai palestinesi per protestare contro le colonie israeliane), come ne sei stato coinvolto?
HO: I ragazzi mi hanno chiamato una settimana prima e mi hanno chiesto una grafica per questo campo di resistenza popolare che non aveva nulla a che fare con Bab al-Shams. Non mi hanno dato nessuna informazione. In quel momento era una copertura: hanno richiesto quel campo come una copertura per la loro reale attività. Perchè all’ultimo momento hanno cambiato i loro piano e sono andati a Bab al-Shams annunciando la nascita di un villaggio palestinese. Ma io non lo sapevo prima! Così il venerdì mi sono svegliato ed ho letto le ultime notizie ed ho appreso che gli stessi ragazzi del campo di resistenza popolare avevano costruito Bab al-Shams. Capii così cosa dovevo fare per quell’evento: in mattinata ho fatto il poster ed il sabato sera mi sono unito a loro. Dopodichè ci hanno evacuato, mi hanno rotto il naso e sono stato seriamente ferito alla gamba. Sono dovuto rimanere a casa per 2-3 settimane.
DM: l’apparato di “pubbliche relazioni” israeliano sta cercando di impedire ai palestinesi di avere un’immagine pubblica a cui possono fare riferimento le persone in giro per il mondo. Come artista ti senti preso di mira da Israele?
HO: Non so se vengo preso di mira a causa dei miei manifesti, perchè oltre alla propaganda sono molto attivo nei movimenti e quindi non riesco a dirlo. Posso dire che alcune volte mi sono stati creati dei problemi a causa dei miei poster che parlavano dell’Autorità Palestinese. Una volta sono stato picchiato dall’ANP ma perchè ero in una manifestazione. Insomma è difficile dire perchè vengo preso di mira.
Facebook è talmente aperto che è difficile per Israele riuscire a soffocare il processo creativo. Anche loro usano i social media in un modo simile al nostro, tentando di costruire delle immagini che li sostengano. Comunque nell’ultima guerra contro Gaza hanno fallito miseramente: loro lavorano come un’ente che ingaggia i grafici e gli scrittori per difendersi mentre dalla parte palestinese ci sono degli individui, gente normale che non viene pagata. Il mondo ha creduto alle nostre narrazioni perchè erano più naturali.
DM: Un tema ricorrente nei tuoi manifesti è la resistenza digitale, come in quello con l’immagine di un fucile fatto di codice binario.
HO: Questo che dici te è un manifesto in cui dico “Salve agli eroi della resistenza elettronica” in riferimento all’hacker che si era intromesso nei sistemi bancari israeliani. Ho reso onore al suo gesto. Ma ciò che ha fatto è resistenza elettronica perchè ha causato un danno fisico, mentre ciò che faccio io proviene dalle retrovie del movimento. In effetti non provoco un mutamento fisico ma mi limito ad incoraggiare e a mobilitare le persone. Per questo non equiparo il mio lavoro a quello delle persone che lanciano le pietre nelle strade e che vanno alle manifestazioni. Ciò che faccio gli da sostegno ma non si può dire che sia resistenza elettronica. La comunicazione visiva stimola le persone a pensare, ma sono loro a dover decidere di agire.
DM: Hai lavorato per la Galleria al-Mahatta di Ramallah, che è stato il primo spazio espositivo professionale per le opere d’arte in città. Ci puoi parlare della galleria e delle belle arti in Palestina?
HO: Ho avviato il posto con un gruppo di amici circa sei anni fa ed ho lavorato come direttore per un anno prima di andarmene. Ho deciso di lasciare le ONG [Organizzazioni Non Governative] perchè sono tutte coinvolte in quelle politiche neoliberiste che stanno cercando di indurre la gente a dimenticarsi la realtà dell’occupazione. Al-Mahatta è un’iniziativa molto bella, ma io ho deciso di non avere a che fare con le ONG.
In generale penso che la scena culturale palestinese non ha alcun legame con la sua realtà, oggi l’arte palestinese non viene prodotta per il popolo palestinese. […]
Il popolo palestinese è arenato nel fallimento del progetto di Oslo mentre gli israeliani stanno costruendo altre colonie, confiscando le terre ed uccidendo persone. E i palestinesi ancora non hanno un nuovo progetto. Sono dispersi e non sono uniti. Non hanno modo di progettare una nuova strategia nazionale. Credo che ciò si rifletta sulla scena culturale: ognuno fa ciò che vuole, non c’è una scena culturale nazionale.
Ognuno insegue il proprio progetto personale. Credo che quando ci sarà un nuovo movimento palestinese che mobiliterà le persone ci sarà un cambiamento culturale. Per quanto mi riguarda in questa folle situazione cerco solo di dimostrare che il movimento non è morto, che non è completamente neoliberista e difensore dell’Occidente. Sto cercando di dire che stiamo ancora provando a produrre arte per il popolo, che si avvicini al popolo, che lo faccia pensare e che lo induca a contrastare ciò che sta avvenendo.
Le opere di Hafez Omar si possono vedere sulla sua pagina Facebook: www.facebook.com/hitancom .
Daryl Meador è un neolaureato all’Istituto d’Arte di Chicago che attualmente vive e fa il volontario a Nablus.