Stalin e Israele[i]
È ben noto che lo Stato di Israele, nato da una risoluzione dell’ONU assai discutibile (e peraltro immediatamente non applicata in parti essenziali), ebbe come primi riconoscimenti quelli dell’URSS e degli Stati Uniti, anche se raramente si ricorda che la risoluzione passò di strettissima misura grazie a due fattori: da un lato l’acquisto di voti di dittature latinoamericane da parte di Nelson Aldrich Rockefeller, magnate e uomo politico statunitense, che le conosceva bene essendo stato vice segretario di Stato per l’America Latina, e aveva per giunta bisogno di farsi perdonare i suoi affari con la Germania nazista; dall’altro un pacchetto di cinque voti a disposizione di Stalin. Oltre all’URSS in quanto tale e a Polonia e Cecoslovacchia, c’erano i voti di Ucraina e Bielorussia, presentati come Stati sostanzialmente indipendenti. I due paesi erano stati accettati da Roosevelt, come compromesso rispetto alla richiesta di inserire nell’ONU con diritto di voto tutte e sedici le repubbliche sovietiche. Senza che i buoni uffici di Rockefeller ottenessero il passaggio di Brasile e Haiti dal no al sì, di Nicaragua, Bolivia ed Ecuador dall’astensione al sì, e di Argentina, Colombia e Salvador dal no all’astensione, e senza il discutibile pacchetto a disposizione di Gromiko, la risoluzione sarebbe stata respinta.
Naturalmente non è necessario ricordare questo itinerario per mettere in dubbio la legittimità di una risoluzione che attribuiva la parte migliore e più grande del territorio a quella che era ancora una minoranza e che in gran parte non aveva alcun motivo per rivendicarlo come “terra dei padri” (su questo rinvio sul sito al mio saggio Ebrei e palestinesi nella storia: miti e realtà e anche a L’invenzione del popolo ebraico, recensione di un utilissimo libro di Shlomo Sand, professore all’università di Tel Aviv). Ma il libro di uno scrittore, giornalista e storico russo, Leonid Mlečin fornisce ora moltissime informazioni supplementari sul ruolo avuto dall’URSS e da Stalin in particolare nella preparazione della risoluzione. Un libro prezioso non solo perché utilizza fonti diplomatiche pubblicate dal ministero degli Esteri russo e da una Fondazione Internazionale Democratija, ma perché offre involontariamente uno squarcio impressionante su una mentalità fondamentalmente razzista evidentemente ben radicata nella società sovietica (e post sovietica). Soprattutto nei confronti degli arabi, come vedremo. Interessante la comprensione dell’autore per le ragioni dell’imperialismo britannico, che essendo vincitore del primo conflitto mondiale avrebbe avuto il diritto di smembrare come gli pareva l’impero ottomano. (pp. 28-29). D’altra parte gli arabi non meritano attenzione, perché sarebbero stati vigliacchi e incapaci di battersi… Povero Lawrence d’Arabia!
Il libro parte da lontano, ma le pagine più interessanti riguardano comunque il periodo della fine della seconda guerra mondiale. Invece alcuni accenni a Lenin e a Trotskij e alle ragioni del grande peso degli ebrei nell’Armata Rossa, soprattutto tra i commissari politici, e nella Ceka, rivelano una scarsa comprensione del fenomeno. A volte ci sono banalità “equidistanti” come questa: “L’antisemitismo dilagò nei territori occupati dai «bianchi», ma molte unità dell’Armata Rossa non si distinsero troppo dagli uomini di Machno. Bisogna dire, per la verità, che i pogrom contro gli ebrei rappresentano solo una parte di quel pogrom contro tutta la Russia che fu la guerra civile con il suo milione di vittime”. A volte sostiene che “l’avvento del potere bolscevico non giovò alla maggior parte della popolazione ebraica”, di cui sconvolse l’esistenza: ma proprio questo, secondo Mlečin, spiegherebbe la forte presenza di ebrei nell’apparato: data “l’esiguità numerica del gruppo dirigente bolscevico, c’erano più cariche che candidati, e gli ebrei-bolscevichi erano fedeli alla rivoluzione, affidabili e leali verso il nuovo potere”. Candidamente Mlečin aggiunge poi che “per molto tempo si è pensato (?) che čekisty e commissari politici ebrei si comportassero in modo particolarmente crudele, semplicemente perché estranei e dunque impietosi verso la Russia e i russi”; ma, bontà sua, ammette poi che “gli ebrei-bolscevichi si consideravano russi a tutti gli effetti, avevano abbandonato la loro lingua e reciso ogni altro legame con l’ambiente ebraico”. Vuol dire che se si russificavano erano accettabili?
Mlečin riferisce l’episodio della discussione tra Lenin e Trotskij sugli incarichi governativi di rilievo che il secondo rifiutava sapendo bene come da varie parti veniva utilizzata la sua origine ebraica (“essere ebreo è stato un elemento insignificante nella mia vita privata, ma un ostacolo notevole sul piano politico”), ma la commenta banalizzandola: “I rivoluzionari come Trotskij si ritenevano al di sopra delle questioni di nazionalità, perché perseguivano obiettivi di rilevanza mondiale e non badavano all’appartenenza etnica né degli amici, né dei nemici”. E già questo in un russo di oggi non è un elogio, ma piuttosto la registrazione di una stranezza. Tuttavia la conclusione è ancor più radicalmente ostile e rivelatrice di un’incomprensione totale delle ragioni della durezza della guerra civile, che non era una scelta o un “pogrom” voluto da entrambe le parti, ma una dura necessità, imposta dalla feroce controffensiva delle classi sconfitte, sostenute da una larga coalizione internazionale: “Ma quanto a folle, ingiustificata crudeltà, durante la guerra [i rivoluzionari] non furono da meno di tutti gli altri”.
Stessa sostanziale incomprensione dell’atteggiamento di Felix Dzeržinskij, che dopo aver esaminato il caso di un gruppo di sionisti sui quali un suo sottoposto aveva stilato un rapporto molto negativo, aveva tirato queste conclusioni: “Francamente, non riesco a capire perché dobbiamo perseguitarli, visto che ci accusano proprio di questo e che sono mille volte più pericolosi da perseguitati che liberi di svolgere la loro attività negli ambienti della borghesia dedita alla piccola e grande speculazione. Gli operai (quelli autentici) non li seguiranno, mentre le loro grida sugli arresti voleranno fino ai banchieri di tutti i paesi e ci nuoceranno non poco”.
Questo solo per evidenziare gli orientamenti dell’autore, che rivela in molti passi un’adesione totale ai pregiudizi anticomunisti e alle calunnie sulla rivoluzione diffusi nella Russia postsovietica, che proiettano sui primi anni del potere sovietico l’orrore della repressione dei decenni successivi, e si stupisce quindi quando scopre una posizione ragionevole in un “mostro” – esecrato almeno quanto Trotskij – come è diventato da Gorbaciov in poi Felix Dzeržinskij, primo organizzatore di una Čeka che in quei primi anni aveva davvero una funzione difensiva rispetto a un attacco concentrico alla rivoluzione.
Ma se in Mlečin non c’è nessuna sintonia e simpatia con la rivoluzione, quando invece parla di Stalin risulta più comprensivo, soprattutto perché ricostruisce dettagliatamente la progressione delle prese di posizione dell’URSS a favore della creazione di uno Stato ebraico in Palestina. E l’autore non nasconde le sue simpatie per i sionisti, che chiama spesso “ebrei palestinesi”, probabilmente perché il termine sionista è rimasto fortemente negativo in Russia, in seguito al lungo uso dell’antisionismo come mimetizzazione dell’antisemitismo; la definizione è abbastanza impropria, perché la maggior parte dei sionisti non erano affatto di origine palestinese (mentre invece molti palestinesi discendevano da ebrei convertiti al cristianesimo o all’Islam, come aveva ammesso lo stesso Ben Gurion negli anni Trenta). Il libro di Mlečin descrive attentamente e considera favorevolmente il progressivo avvicinamento della diplomazia sovietica alle posizioni sioniste, senza indignarsi per le grossolane liquidazione delle ragioni della causa araba nelle stesse posizioni ufficiali e soprattutto nella corrispondenza diplomatica.
Mlečin spiega abbastanza bene le ragioni del disinteresse sovietico iniziale per quell’area: si dava per scontato che fosse sotto il controllo britannico, e quindi, quando nella primavera del 1943 furono autorizzati gli esponenti del Comitato Ebraico Antifascista a fare un viaggio propagandistico negli Stati Uniti per stimolare una campagna per l’apertura di un secondo fronte in Europa, si raccomandò loro di “non esprimere opinioni su un eventuale Stato ebraico in una libera Palestina, in quanto la Palestina si trova sotto mandato britannico”. D’altra parte in tutte le fasi in cui la politica sovietica dal 1935 al 1939 e poi dal 1941 al 1947 fu orientata a favore della coalizione tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, era un tabù perfino nominare il diritto all’indipendenza di colonie o protettorati o mandati…
Ma un gruppo di dirigenti che simpatizzavano per la causa sionista aveva cominciato a delinearsi fin dal 1941, con i frequenti incontri tra l’ambasciatore sovietico a Londra Ivan Maiskij e Chaim Weizmann ed altri dirigenti sionisti. Nel 1941 era poi tornato sulla scena politica, anche se un po’ defilato e senza incarichi formali importanti, anche Maksim Litvinov, il massimo fautore di una politica di alleanza antinazista, che era stato allontanato dall’incarico di ministro degli Esteri alla vigilia della visita di Ribbentrop a Mosca anche perché era l’ultimo ebreo rimasto nel governo sovietico. Una serie di sue relazioni, che partivano dall’ipotesi (infondata) di una prossima forte contrapposizione tra Stati Uniti e Gran Bretagna, spinsero Stalin e Molotov, e anche il nuovo esponente della diplomazia sovietica Gromyko, a interessarsi sempre più della Palestina. Litvinov sosteneva – non senza fondamento – che la questione palestinese non potesse essere risolta “se non a scapito dei diritti e delle aspirazioni o degli ebrei, o degli arabi, o forse di entrambi”, ma proponeva intanto di chiedere in via provvisoria l’assegnazione della tutela sulla Palestina all’Unione Sovietica. Come questa richiesta potesse contribuire alla soluzione, non è affatto chiaro. Se ne capisce però la logica ricordando che nello stesso periodo l’URSS aveva chiesto anche un mandato sulla Tripolitania: evidentemente si riteneva che l’enorme sforzo militare contro la Germania desse diritto a ricompense territoriali, compresa la partecipazione alla ridistribuzione del mondo coloniale tra i vincitori. Litvinov peraltro, dando per scontato un rifiuto della Gran Bretagna, propose che in seconda battuta si proponesse che la tutela sulla Palestina fosse assicurata congiuntamente da Stati Uniti, Unione Sovietica e Inghilterra. La proposta era stata fatta propria da Molotov, e da alcuni diplomatici operanti nel Medio Oriente, che sostennero che l’appoggio statunitense al progetto di uno Stato ebraico fosse la prova che gli USA cercassero di buttar fuori da quell’area la Gran Bretagna.
Per spiegare come si fosse diffusa questa convinzione infondata, Mlečin osserva acutamente che Stalin e lo stesso Molotov (convinti nel 1947 di un imminente passaggio al socialismo dei principali paesi occidentali come conseguenza delle contraddizioni interimperialiste) “erano certamente irrigiditi nei dogmi, ma va detto che le loro opinioni venivano fatte rimbalzare da ambasciate, servizi segreti e apparato del Comitato centrale sotto forma di appunti e di rapporti, ed essi perciò finivano per credere che le loro idee fossero confermate dai fatti, mentre, in realtà, le informazioni che essi ricevevano venivano espressamente manipolate alla fonte, per renderle conformi al pensiero di chi stava ai vertici del paese”. E in base a questa valutazione i vertici sovietici decisero di sbilanciarsi sempre più a favore della creazione dello Stato di Israele, pensando che così si dava un colpo alla detestata Gran Bretagna, e che sarebbe stato possibile trasformare il nuovo Stato in un alleato, grazie all’origine dei suoi dirigenti, quasi tutti nati in Unione Sovietica, Polonia o altri stati nel frattempo entrati nell’orbita sovietica. Un’illusione che non teneva conto che quegli uomini avevano praticamente tutti un anticomunismo di fondo, anche basato su esperienze personali, e avevano scelto da decenni di legare la propria causa all’imperialismo.
Il progetto di conquistare i dirigenti sionisti era difficile anche perché, pur concordando tra loro di non polemizzare apertamente, sapevano bene che negli ultimi anni, a partire dalla fine degli anni Trenta, erano cominciate discriminazioni nei confronti degli ebrei sovietici, a cui comunque si vietava di recarsi in Palestina. A queste discriminazioni Mlečin accenna di sfuggita più volte: ad esempio, parlando del consigliere Boris Stein, dice che, “nonostante gli ebrei fossero stati esclusi dal servizio diplomatico”, veniva consultato ogni tanto (ed effettivamente nel 1947 Stein inviò a Vyšinskij un appunto in cui sconsigliava di richiedere la tutela sulla Palestina e insisteva per un esplicito appoggio all’indipendenza della Palestina).(p.83) Ma viene fuori dal diario di Leonid Timofeev, pubblicato recentemente in Russia, che in quello stesso anno essere ebreo impediva ad esempio di essere assunto all’Istituto Pedagogico, di ottenere un dottorato all’Università, di essere curatore di un’antologia della letteratura russa. Insomma l’antisemitismo cresceva al punto che venne rilanciata l’antica calunnia del sacrificio rituale (“L’antisemitismo è talmente aumentato che a Mosca gira la voce che per Pasqua gli ebrei abbiano sgozzato una bambina”). La scelta di favorire Israele era cinica, e non in contraddizione con l’ostilità antiebraica che dal gruppo dirigente penetrava di nuovo nella società (p. 92-93).
Il 14 maggio 1947 il rappresentante sovietico all’ONU Andrej Gromyko fa una “piacevolissima sorpresa” ai sionisti, con un discorso in cui dopo aver denunciato le “tremende e indescrivibili sofferenze” degli ebrei sopravvissuti allo sterminio, proponeva di “prestare loro aiuto non a parole, ma concretamente”, e dato che nessuno Stato dell’Europa occidentale era stato capace “di garantire i diritti elementari del popolo ebraico e di proteggerlo dalla violenza fascista” concludeva che era necessario consentire ai sopravvissuti di avere uno Stato proprio. Indicava quattro possibili soluzioni: un unico Stato di arabi ed ebrei con parità di diritti; la divisione in due Stati; la creazione di uno Stato arabo con minoranza ebraica; uno Stato ebraico con minoranza araba. Di fatto le proposte erano solo due, e Gromyko dichiarò che personalmente era a favore della prima, ma aggiunse che “se la convivenza pacifica di arabi ed ebrei si fosse rivelata impossibile, sarebbe stato necessario costituire due Stati indipendenti”. Ma Molotov in una lettera di poco successiva a Vyšinskij aveva chiarito che “la nostra proposta di costituire un unico Stato binazionale, come prima variante per la soluzione della questione palestinese, era basata su considerazioni di carattere tattico”. Nell’epoca staliniana il termine “tattico” era diventato sinonimo di escamotage furbesco. E infatti Molotov spiegava che dato che “noi non possiamo prendere l’iniziativa di creare uno Stato ebraico” è dunque la seconda variante “quella che meglio rappresenta la nostra posizione”. (p.88)
Così quando il 26 novembre 1947 cominciò la discussione in Assemblea generale, il discorso di Gromyko si sbilanciò nettamente a favore della tesi sionista, respingendo le obiezioni dei rappresentanti dei paesi arabi, che sostenevano che la spartizione della Palestina rappresentava un’ingiustizia storica: “Questa opinione non è condivisibile, perché in realtà il popolo ebraico ha mantenuto il suo legame con la Palestina dai tempi più antichi”. Gromyko così accettava una mistificazione di fondo della propaganda sionista, che presentava come un popolo quella che per secoli era stata solo una religione, diffusasi come tutte le altre anche per proselitismo, e attribuiva al sionismo (allora ancora una tendenza politica minoritaria nella maggior parte delle comunità ebraiche) la rappresentanza complessiva dell’ebraismo e il diritto ad ottenere per sé il risarcimento per le sofferenze di tutti gli ebrei, anche ostilissimi al sionismo. Sul carattere estremamente minoritario del sionismo perfino nella Polonia tra le due guerre, rinvio a Chiesa esercito e masse nella crisi polacca., in particolare al capitolo su L’antisemitismo di regime.
Il libro di Mlečin documenta come l’appoggio non fu dato solo con il voto: per ragioni diverse, Gran Bretagna e Stati Uniti avevano caldeggiato un embargo sulle armi, che fu aggirato largamente dall’URSS direttamente e soprattutto attraverso Polonia, Cecoslovacchia e anche Jugoslavia (la cui rottura con Mosca non si era ancora consumata, anche se si era astenuta sulla risoluzione perché contraria alla spartizione). In questa parte Mlečin fornisce molti dettagli tecnici utili sulle forniture di armi anche pesanti, di aerei, ecc., ma li inserisce in una piatta adesione ad un altro luogo comune della propaganda sionista, che nasconde i reali rapporti di forza e presenta Israele come il Davide armato della sua sola fionda, mentre è stato documentato anche dai “Nuovi storici” israeliani che Israele già prima della sua proclamazione era ben fornito di armi, e appoggiato non solo dagli aerei che arrivavano dalla Cecoslovacchia, ma da quelli che si erano addestrati nel Sudafrica razzista, e che a volte arrivavano con piloti non ebrei, cioè mercenari. Mlečin riporta numerosi giudizi sovietici ostili agli arabi, considerati tutti barbari manipolati dai britannici, nonostante a protestare fossero in primo luogo i partiti comunisti e progressisti, che da quella vicenda uscirono praticamente distrutti. E, senza scandalizzarsi, riporta un colloquio tra Molotov e Golda Meir, primo ambasciatore in URSS, che convengono sulla necessità che Israele vada oltre la linea di spartizione dalla risoluzione dell’ONU per avere confini che “risultino difendibili più facilmente”. Molotov non obiettò nulla, ma secondo il suo interprete e assistente, Oleg Trojanovskij (figlio del primo ambasciatore sovietico a Washington) dichiarò che riteneva che “lo Stato di Israele sia partito bene, che ci siano le basi per uno Stato forte”.
Ma forse più scandaloso, e ancor meno conosciuto, è l’atteggiamento sovietico e cecoslovacco sull’assassinio del conte Folke Bernadotte, mediatore dell’ONU per la Palestina. Mlečin dice che “si sospettò” che a ucciderlo fossero stati estremisti ebraici, forse perché ignora che per il delitto furono non “sospettati” ma condannati in Israele molti militanti della estremista e fascistizzante Banda Stern, compreso il futuro primo ministro Ytzhak Shamir; riporta invece in tono neutro che i servizi segreti statunitensi erano convinti che l’operazione fosse stata preparata dai loro colleghi di URSS e Cecoslovacchia, anche perché avevano scoperto che “trenta militanti coinvolti nell’affare” erano stati fatti partire per Praga con un aereo speciale quella notte stessa, con visti rilasciati in fretta e furia dal consolato cecoslovacco. Viceversa, ma non prova niente, la rivista sovietica “Novoe Vremja” aveva poi attribuito il delitto alla Gran Bretagna.
Mlečin non si pronuncia né è minimamente indignato: la ragione è che accetta la versione sionista (non solo degli assassini della Banda Stern ma anche dei laburisti) che considera Bernadotte un antisemita che voleva la distruzione dello Stato di Israele. In realtà la colpa del diplomatico svedese era quella di aver presentato un piano per il rientro dei cosiddetti “profughi”, cioè dei palestinesi che erano stati espulsi con la violenza e con una vera pulizia etnica che comportava massacri di inermi, e perfino stupri (si è saputo molto più tardi, grazie anche a scrupolosi storici israeliani). Per i governanti israeliani di tutte le tendenze, parlare di rientro, significa automaticamente volere la morte di Israele. In realtà sarebbe solo la morte dello Stato ebraico, razzista ed esclusivo. Il rientro imporrebbe o una vera fascistizzazione con la soppressione totale dei diritti dei cittadini palestinesi, come è stato proposto più volte da estremisti rappresentati nel parlamento israeliano, o la trasformazione di Israele in un vero Stato democratico, con uguali diritti per tutti.
L’accusa di Mlečin a Bernadotte non nomina la questione del rientro, ma vi allude indirettamente dicendo che “Bernadotte considerava fallimentare la risoluzione dell’ONU sulla spartizione, e riteneva più giusto creare un solo Stato”. Mlečin sorvola sul fatto che a questa convinzione Bernadotte era arrivato sulla base dell’esperienza, vedendo che la spartizione era stata realizzata da Israele, grazie alla sua effettiva superiorità militare, privando i palestinesi di gran parte delle terre assegnate loro dal pur ingiusto progetto dell’ONU.
“L’attuazione di questa sua idea avrebbe comportato la sparizione del neonato Stato di Israele dalla carta politica del mondo, quindi sia gli ebrei palestinesi sia Stalin vi si opponevano”, scrive Mlečin, usando ancora una volta furbescamente la definizione “ebrei palestinesi” al posto di “sionisti”. E quanto a Stalin, non si tratta solo di un’ipotesi, dato che concordò con Molotov e l’infame Vyšinskij, allora rappresentante dell’URSS all’ONU, un’iniziativa per respingere il piano di Bernadotte. Anche Dmitrij Manuil’skij, ex menscevico diventato poi uno dei più zelanti servitori di Stalin nell’Internazionale comunista fino al suo scioglimento, e che nel 1947 era rappresentante dell’Ucraina nel Consiglio di Sicurezza, rigettò il piano Bernadotte assicurando che “mirava a distruggere Israele”. (p.150-152). Di fronte alla questione dei “profughi arabi, il problema non era di grande interesse per la diplomazia sovietica”, che propose quindi che fosse “risolta mediante trattative dirette tra le parti interessate, vale a dire tra il governo di Israele e quello dello Stato arabo di Palestina”. Peccato che quest’ultimo non ci fosse!
A questo punto viene fuori il solito Manuil’skij, che nell’autunno 1948 avanzò una proposta sorprendente: “trasferire nell’Asia centrale sovietica gli arabi che avevano lasciato la Palestina”. Spudorata la definizione di arabi e non di palestinesi (come abbiamo visto il termine “palestinesi” per gli stalinisti si usava solo per gli ebrei, per non dire sionisti); ipocrita dire “avevano lasciato” e non “erano stati cacciati”; grottesco anche che un rappresentante di un sedicente Stato europeo come l’Ucraina disponesse dei territori delle repubbliche asiatiche dell’URSS…
Vale la pena di riportare l’intero periodo in cui Leonid Mlečin spiega (trovandola ragionevole) questa proposta.
“I dirigenti sovietici non consideravano la vicenda dei profughi come una tragedia: gli ebrei dei paesi arabi (circa novecentomila!) erano stati costretti ad abbandonare case e proprietà e a fuggire dai luoghi in cui erano nati.”[notare il tono diverso usato nei confronti delle due “migrazioni” e il silenzio sul fatto che la convivenza plurisecolare tra arabi ed ebrei in molti paesi del Medio Oriente fu spezzata proprio dalla ferocia dell’espulsione dei palestinesi, e almeno nel caso di Iraq e Yemen accelerata da interventi dei servizi segreti israeliani. NdR]. “Mezzo milione di essi si stabilì in Israele dove iniziò una nuova esistenza. I diplomatici sovietici ritenevano, pertanto, che gli arabi non disposti a restare in Israele potessero stabilirsi nei paesi limitrofi; uno scambio di popolazione di questo genere non sembrava loro inusuale”. Ancora la solita falsificazione terminologica… Ma è vero e logico però che i diplomatici staliniani lo trovavano non inusuale. Lo spiega bene lo stesso Mlečin subito dopo:
“Sul finire della Seconda Guerra Mondiale, nel settembre 1944, Stalin e il Comitato polacco di Liberazione nazionale [arrivato al seguito dell’Armata Rossa, e che non rappresentava che una minima parte della resistenza al nazismo, NdR] avevano siglato un accordo sul «rimpatrio della popolazione ucraina dai territori acquisiti dalla Polonia, e della popolazione polacca dell’Ucraina sovietica» in base al quale i polacchi avrebbero lasciato la Volinia e la Galizia e gli ucraini i distretti di Beščada e di Chelm: in altre parole tutti i polacchi in Polonia e tutti gli ucraini in Ucraina. Agli ucraini di Polonia, che avessero deciso volontariamente di trasferirsi nella loro patria storica, sarebbero stati rimessi i debiti contratti in Polonia e assegnati appezzamenti di terra in Ucraina. Ma al primo marzo del 1945 meno di centomila persone avevano aderito alla proposta: è molto difficile lasciare luoghi in cui si sono messe radici. Allora si fece ricorso alla forza. Milizia e reparti dell’esercito polacco circondarono i villaggi, diedero ai contadini qualche ora di tempo per prepararsi e poi li spinsero verso la ferrovia e li caricarono sui vagoni. Chi non obbediva veniva picchiato. Stalin aveva trovato sensata quell’operazione, e non capiva perché non si potesse fare allo stesso modo anche in Medio Oriente.” (pp. 152-153)
Ecco la chiave dell’atteggiamento sovietico! Qui mi sembra che, sia pur velata, ci sia in Mlečin una certa disapprovazione… Tanto più che aggiunge subito dopo che a Stalin “non piaceva invece il sincero interessamento degli ebrei sovietici per Israele e il loro desiderio di aiutare lo Stato ebraico.” A questo tema dedica l’ultima parte del volume.
Mlečin segnala poi, che “curiosamente, in quello stesso periodo il direttore dell’FBI, Edgar Hoover, scrisse al presidente Truman in un messaggio riservato: «una fonte nota per la sua attendibilità ci ha comunicato che i russi si accingono a trasferire in Palestina circa duecentomila ebrei comunisti convinti”. Che fortuna la cecità degli “onnipotenti” servi segreti! La spiegazione è che Hoover considerava comunisti tutti i sionisti, mentre Stalin la pensava diversamente, e per questo commissionò a Il’ja Erenburg una lettera da pubblicare sulla Pravda che l’ambasciatore israeliano a Mosca Golda Meir definì “favorevole a Israele e contraria al sionismo”, perché escludeva la possibilità di recarvisi volontariamente. Su questa lettera alcuni hanno discusso seriamente, senza rendersi conto della ridottissima autonomia di Erenburg: la collaborazione con il governo sovietico per uno che lo stesso Stalin aveva definito in una conversazione con Fadeev “una spia internazionale” era una scelta obbligata per sopravvivere. Devo dire che Mlečin ricostruisce esaurientemente il complesso e in parte imprevedibile rapporto tra Stalin e Erenburg (ma anche con alcuni altri scrittori eretici, come Bulgakov), che li sottrasse alla sorte toccata a Babel, Mandel’stam e tanti altri intellettuali sovietici. [Sulla questione rinvio ovviamente al mio Intellettuali e potere in URSS, in particolare ai capitoli III e IV]
Qualche mia asprezza nel segnalare alcune pagine del libro che mi pare rivelino troppa indulgenza nei confronti del cinismo staliniano e scarsa comprensione per la tragedia dei palestinesi (e di altri popoli vittime di espulsioni e trasferimenti forzati) non mi fanno dimenticare però altri pregi del libro: oltre a fornire le pezze d’appoggio per capire il meccanismo che portò l’URSS staliniana a diventare del tutto corresponsabile della tragedia mediorientale, vengono ricostruiti molti aspetti della vita sovietica, anche attraverso alcune note biografiche. Ad esempio quella su Molotov e sua moglie, Polina Žemčužina, che perché ebrea fu destituita da ministro, processata, umiliata, mentre il già potente luogotenente di Stalin veniva costretto ad autocriticarsi per essersi astenuto in comitato centrale sull’espulsione di quella che era la sua compagna da decenni. (pp. 165-171).
Ma anche tante altre, come quella di Sergej Kavtaradze, condannato per trotskismo e inspiegabilmente graziato dal suo vecchio amico di gioventù Stalin, che dopo averlo fatto scarcerare, si recò a visitarlo personalmente nella stanza in cui viveva con la moglie in coabitazione con altre famiglie, con uno di quei suoi gesti caratteristici “che furono pochi ma divennero leggendari”. (pp. 117-118). Spesso proprio nelle ricche note vengono fuori particolari inediti: ad esempio ricostruendo chi erano i tre agenti dell’ufficio “terrore e sabotaggio” del Ministero della sicurezza statale, Garbuz, Kolesnikov e Semënov (alias Aleksandr Taubmann), ci informa in nota tranquillamente che quest’ultimo “è entrato nella storia dei servizi segreti per aver organizzato l’assassinio di Rudol’f Klement”, il comunista tedesco che era uno dei principali collaboratori di Trotskij e che fu sgozzato a Parigi nel 1938 alla vigilia della Conferenza di fondazione della Quarta Internazionale. (pp. 120-121)
Inspiegabilmente il libro nell’edizione italiana si ferma al 1953, anno della morte di Stalin, “per scelta editoriale concordata con l’autore”. Lo spiega in una noterella il prefatore e direttore della collana Luciano Canfora, ma non è facile capire cosa e perché è stato tagliato. Probabilmente Mlečin dissentiva ben più duramente dalla politica successiva dell’URSS, come si intuisce da una Nota dell’Autore posta come breve preambolo. Tanto più sgradevole il taglio di una parte importante, mentre l’edizione italiana è appesantita da un eccesso di interventi non essenziali: una prefazione di Canfora, una introduzione di Enrico Mentana, e una brevissima postfazione di Moni Ovadia, richiamate in copertina con lo stesso carattere del nome dell’autore per evidenti fini pubblicitari. Di nessun interesse le 7 pagine di “documenti”, in falso facsimile, su un episodio marginale, un viaggio a Roma della Meir.
Ma, dopo tanta reticenza su questo aspetto della vicenda sovietica, il libro rimane una preziosa miniera di informazioni, che vale la pena di utilizzare.
[i] Leonid Mlečin, Perché Stalin creò Israele, Sandro Teti, Roma, 2010.