Speranza rivoluzionaria e cambiamento nel “Mondo Arabo”. Dieci domande a Gilbert Achcar

nostra traduzione da International Viewpoint n°434 – Marzo 2011

Ali Mustafa, Gilbert Achcar*

Ali Mustafa: Il Medio Oriente è stato a lungo considerato tra i luoghi meno probabili in cui assistere a qualcosa simile ad una rivoluzione popolare. Gli arabi in particolare sono stati tradizionalmente immaginati come politicamente deboli, indifferenti ed adesso “non ancora pronti” per la democrazia. Secondo te queste caratterizzazioni cosa suggeriscono sulla nostra conoscenza di base della regione e del suo popolo?

Gilbert Achcar: Ritengo che ora la risposta sia diventata ovvia. Gli eventi in corso hanno mandato in frantumi tutte quelle teorie che ritenevano che la democrazia non fosse parte dei “valori culturali” degli arabi o dei musulmani, e anzi che quest’ultimi fossero culturalmente propensi ai regimi dispotici, e tutte queste stupidaggini – e ce ne sono state parecchie. La maggior parte delle volte sono chiaramente razziste, orientaliste o islamofobe; possono anche essere espresse dai governanti occidentali come pretesto per accogliere i regimi dispotici, i loro migliori amici. Comunque le insurrezioni non sono una sorpresa per chiunque non abbia aderito a queste vedute “culturaliste” e che sapeva che il desiderio di democrazia e libertà è universale. Le genti di tutto il mondo sono disposte a pagare un prezzo alto per la lotta per la democrazia quando le circostanze raggiungono un punto in cui sentono che sia il momento giusto per agire.

AM: Le insurrezioni avvenute per tutto il “mondo arabo”, in Tunisia, Egitto, Giordania ed oltre, sono state in gran parte popolari, laiche ed hanno attraversato tutti i settori della società. Siamo potenzialmente di fronte all’ascesa di un nuovo tipo di Panarabismo, o solamente alle stesse cause di fondo? Se è così, questo nuovo panarabismo come potrà rompere con la precedente incarnazione dell’era nasseriana?

GA: No, non ritengo che ci sia nulla di simile a quel genere di nazionalismo arabo che è esistito negli anni ’50 e ’60. Stiamo in tempi molto diversi. Certamente il sentimento nazionale arabo ha ricevuto una nuova “carica”, se si può dire così, nella misura in cui quest’ondata si è diffusa in tutta la regione. Ha enormemente rafforzato il senso di appartenenza alla stessa area geopolitica e culturale. In questo senso la consapevolezza di appartenere ad una sfera cultural-nazionale araba è aumentata a causa degli eventi in corso, ma non è comparabile con le aspirazioni di unità araba che ci sono state negli anni ’50 e ’60, quando la fiducia nella possibilità di unificare i popoli arabi in un singolo stato era piuttosto forte, in particolare sotto Nasser.

Ora ciò che abbiamo è di nuovo un senso di appartenenza alla stessa area geopolitica e culturale, ma il movimento viene dal basso e, se anche la gente contemplasse la prospettiva dell’unità, sarebbe più vicina ad un modello europeo di unificazione piuttosto che a quello degli anni ’50 e ’60; Ciò richiederebbe prima di tutto un mutamento in senso democratico dei regimi arabi, e dopo si può avere un processo democratico tra paesi arabi differenti che vadano a formare gradatamente un’entità politica unita federale o confederale. Di sicuro è qualcosa di cui tener conto per il futuro. Per adesso i popoli si stanno occupando di un mutamento democratico, e ciò a cui stiamo assistendo è solo l’inizio: c’è molta strada da fare prima che ciò sia completato.

AM: Ci sono state molte congetture per risalire alle conseguenze di lungo periodo della rivoluzione egiziana sulle relazioni diplomatiche con Israele, ma secondo te questi eventi cosa comporteranno in modo particolare per i palestinesi?

GA: Possono comportare solo cose positive per la causa palestinese. Poiché hai detto “palestinesi”, al plurale, dobbiamo specificare cosa intendiamo: stiamo parlando dell’Autorità Palestinese (AP) di Mahmoud Abbas e Salam Fayyad, oppure di Hamas o del popolo palestinese nel suo complesso? Sono punti di vista completamente differenti. Per il popolo palestinese, e la sua causa in generale, come per ogni popolo arabo, ciò che sta avvenendo nella regione è ciò che di meglio possa capitare. L’impennata del movimento di massa in Egitto rende la condizione del popolo palestinese potenzialmente migliore. Il regime egiziano – che è stato complice con Israele nell’opprimere il popolo palestinese, soprattutto a Gaza – è stato indebolito parecchio dalle proteste di massa, e non ci sono dubbi che il movimento popolare egiziano senta una forte affinità e solidarietà con il popolo palestinese, soprattutto con il popolo di Gaza che intrattiene molti rapporti con l’Egitto; nel lungo periodo tutto ciò può portargli soltanto benefici.

AM: In definitiva, questa ondata rivoluzionaria cosa comporterà per la politica estera americana in Medio Oriente? Stiamo assistendo potenzialmente alla fine di un lungo retaggio dell’egemonia statunitense nella regione?

GA: Le conseguenze saranno contrastate: i clienti di Washington saranno più che mai dipendenti dalla protezione statunitense, soprattutto gli stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo, cioè le monarchie petrolifere nell’area del Golfo Persico. Ora sono spaventati a morte da quest’ondata di lotte, che ha anche raggiunto due di loro, il Bahrain e l’Oman, e che sta cominciando a colpire il regno saudita. Questi regimi dipenderanno come non mai dalla protezione statunitense. Tra gli altri paesi in cui è in corso il movimento – incluso l’Egitto che è il secondo più grande beneficiario al mondo dell’aiuto estero statunitense dopo lo stato israeliano – tutto dipenderà dall’esito della lotta in corso tra il regime militare ed il movimento di massa. Le forze armate dipendono molto da Washington mentre il movimento di massa è ovviamente ostile a questa dipendenza e alla politica estera statunitense nella regione. In ogni caso  gli eventi in corso sono un brutto colpo per gli interessi strategici statunitensi in Medio oriente, soprattutto in quanto destabilizzano i protetti di Washington nella più importante regione del mondo; ciò è assolutamente chiaro.

AM: Dal 1952 l’Egitto è stato governato da una dittatura militare de facto ed ora le forze armate stanno svolgendo il ruolo di governo provvisorio fino a settembre, quando si terranno delle elezioni libere. Qual’è il ruolo che hanno giocato fino ad adesso? È plausibile che alla fine cederanno il potere o hanno solo sacrificato il dittatore per salvare la dittatura?

GA: Di sicuro hanno un certo numero di carte che possono riposizionare nel tentativo di disinnescare il movimento di massa. Ha iniziato Mubarak stesso, che ha licenziato il governo e designato un altro primo ministro che ha formato un nuovo consiglio dei ministri; poi la classe dirigente del partito al potere è stata costretta alle dimissioni; poi Mubarak stesso è stato costretto a lasciare la scena sotto la pressione del movimento di massa; ora le forze armate hanno fatto un rimpasto di governo. Ma tutto ciò non è del tutto convincente per il movimento di massa, che chiede molto di più: vogliono un cambio completo del governo senza personalità coinvolte nel regime precedente.

Oltre ciò stanno chiedendo che ci sia un comitato presidenziale per sorvegliare il periodo di transizione, un comitato composto in gran parte di civili e con solo un rappresentante delle forze armate. Hanno chiesto inoltre l’elezione di un’assemblea costituente, mentre i militari hanno aggirato questa richiesta con la creazione di un comitato incaricato di stilare alcune modifiche alla costituzione che verranno sottoposte a referendum – un progetto completamente diverso, anche se promettono che il prossimo parlamento redigerà una nuova costituzione. Un argomento importante è la data delle prossime elezioni parlamentari: le forze armate, appoggiate in questo dai Fratelli Musulmani, vogliono tenerle a giugno, mentre i giovani capi della rivolta vogliono che siano rinviate di alcuni mesi per permettere alle nuove forze politiche di organizzarsi. È chiarissimo che ciò che l’esercito sta tentando di fare è ciò che a Washington definiscono come una “transizione ordinata”, con il controllo saldamente in mano ai militari. Siccome i giovani leader non appoggiano questa linea, stiamo assistendo ad un braccio di ferro tra la giunta militare ed il movimento popolare.

AM: Ora è chiaro che le prime proteste di massa della rivoluzione egiziana sono state organizzate in gran parte dai giovani, ma fino ad ora qual’è stato il ruolo dei lavoratori e della classe operaia? E secondo te qual’è il loro ruolo in futuro?

GA: Se ti riferisci al modo in cui sono iniziate le proteste del 25 gennaio, sicuramente il ruolo chiave è stato svolto dai gruppi d’opposizione liberali e di sinistra come il Movimento Giovanile “6 aprile”, collegato all’Associazione Nazionale per il Cambiamento incentrato sulla figura di Mohamed El Baradei. Questa volta tutte queste persone hanno giocato un ruolo decisivo nell’organizzazione del movimento. Ma il Movimento Giovanile “6 aprile” stesso è nato in solidarietà con gli scioperi operai svoltisi dal 2006 in poi. Il movimento prende il nome dal giorno del 2008 in cui hanno provato ad organizzare uno sciopero generale su scala nazionale in appoggio al movimento operaio.

Ora sta avvenendo il contrario: il 6 aprile e le altre forze politiche sono state strumentali all’avvio delle proteste del 25 gennaio, ma dopo alcuni giorni, poco prima che Mubarak lasciasse la scena, gli operai hanno iniziato ad unirsi al movimento non solo come manifestanti, come avevano fatto fin dal primo giorno, ma anche come scioperanti. L’ondata di scioperi ha raggiunto proporzioni mai viste prima che Mubarak si dimettesse, ed è verosimile che ciò ha influenzato il suo ultimo gesto di cessione del potere alle forze armate. Gli scioperi – insieme con le rivendicazioni di varie categorie di lavoratori, il processo di formazione di sindacati indipendenti e la richiesta fondamentale di scioglimento dei sindacati controllati dallo stato – stanno continuando malgrado le minacce dei militari o le richieste di cessazione da parte delle forze di opposizione come i Fratelli Musulmani. Tutto ciò continua ad andare avanti e dimostra come gli operai siano una parte molto potente del movimento.

AM: Con così tanta enfasi sull’estromissione di Mubarak, c’è la paura che, ora che è andato via ed aumentano le richieste di “stabilità” ed “ordine”, la rivoluzione egiziana possa perdere il suo slancio iniziale e limitarsi ad una cristallizzazione dello status quo?

GA: Lo si poteva temere quando Mubarak ha lasciato la scena, ma ciò a cui abbiamo assistito fino ad ora non punta del tutto in questa direzione. Le mobilitazioni del venerdì sono ancora molto ampie ed il movimento non ha intenzione di arrestarsi. Sono in cantiere nuove mobilitazione e sono sicuro che nei prossimi tempi vedremo molto di più. Fondamentalmente conferma ciò che stavo dicendo: che questo processo rivoluzionario non è una rivoluzione compiuta in nessuna accezione del termine; è ancora in divenire e sono ancora possibili innumerevoli esiti.

O le forze armate riusciranno a controllare la situazione e ad imporre il loro (e di Washington) tipo di “transizione ordinata”, oppure il movimento avrà successo nell’imporre un mutamento più radicale. Vedremo, ma per adesso, alla luce di ciò a cui abbiamo assistito fino ad ora, ci sono più motivi per essere ottimisti piuttosto che pessimisti.

AM: Nei primi stadi della rivoluzione egiziana abbiamo visto molta unione intersettoriale – ad esempio giovani/vecchi, uomini/donne, musulmani/cristiani. Questo tipo di dinamica quali possibilità ha di rimanere in piedi nell’era post-Mubarak? Quali sfide incontrerà più avanti?

GA: Nel prossimo futuro non posso vedere nessuna frattura tra giovani e vecchi, uomini e donne, od anche tra musulmani e cristiani. Non sto dicendo che non ci sia la possibilità che avvenga in futuro, ma basandomi su ciò che abbiamo visto fino ad ora sembrano esserci pochi rischi. L’unica minaccia reale tra quelle che hai nominato potrebbe essere una ripresa delle tensioni tra musulmani e cristiani, visto che già esistevano prima. Ma a questo punto la protesta ha dimostrato di essere una meravigliosa medicina per la divisione. Abbiamo assistito a manifestazioni di fratellanza tra persone di origine musulmana e cristiana, ed anche una forza fondamentalista come i Fratelli Musulmani sono stati molto chiari nel rifiutare il settarismo all’interno del movimento.

A questo stadio il punto chiave dell’unità o della divisione non sta tanto sul dato di “identità”, quanto sul dato politico, nonché su quello di classe; in termini politici è l’unità delle forze d’opposizione che è minacciata. Le forze armate stanno provano a comprarsi parte dell’opposizione per collaborare con loro; hanno già portato al governo alcuni rappresentanti dell’opposizione legale e stanno tentando di assicurarsi l’appoggio dei Fratelli Musulmani e di coinvolgerli nella “transizione ordinata”.

Le forze armate stanno provando a rompere l’unità dell’opposizione e, naturalmente, non possiamo scommettere che quest’unione vada avanti all’infinito. Per adesso le forze democratico-radicali e di sinistra sono ancora in grado di indicare la via e di mobilitare la gente per chiedere un mutamento più radicale.

AM: Abbiamo visto le insurrezioni rivoluzionarie nel medio oriente crescere oltre ciò che credevamo possibile, espandendosi rapidamente alla Libia, all’Algeria e al Marocco. Vedi qualche eccezione nei posti in cui non è probabile che avvengano, compresi Libano, Siria od Arabia Saudita?

Le proteste di massa sono più forti dove ci sono regimi dispotici. Il Libano è un paese dove ci sono elezioni regolari e relativamente eque, e dove attualmente la maggioranza politica è dominata da Hezbollah, così ciò crea condizioni molto differenti. Nonostante ciò di recente a Beirut è stata organizzata una manifestazione contro il settarismo e per la laicità. Quando guardi agli altri regimi dispotici nella regione araba, due di loro sono paesi dove la protesta popolare sta covando ma sta venendo arrestata da regimi ferocemente repressivi: il regno saudita da una parte, la Siria dall’altra. Nel mio intervento del 13 febbraio a Toronto ho detto che in paesi come la Siria e la Libia la probabilità di un’esplosione era minore che in altri paesi della regione, a causa del carattere particolarmente crudele dei regimi al potere. Ho comunque aggiunto che se dovesse scoppiare un’insurrezione, ci sarebbe stato molto più spargimento di sangue piuttosto che in Tunisia ed in Egitto, ed è esattamente ciò che sta avvenendo in Libia.

Si può dire la stessa cosa della Siria e del regno saudita. In tali paesi potrebbero cominciare delle proteste di massa, soprattutto se l’insurrezione libica avrà successo – un fatto che sicuramente incoraggerà il movimento di protesta. Qui e nel resto del mondo arabo i regimi stanno portando avanti ogni sorta di concessione preventiva, innalzando i salari e promettendo altre politiche sociali, perché hanno paura che l’ondata di rivolte democratiche possa raggiungere anche i loro paesi. Nessuno nel mondo arabo può sentirsi immune – anche in paesi come il Libano e l’Iraq dove c’è qualche possibilità di alternanza al potere attraverso le elezioni. L’Iraq ha visto la nascita di un movimento di massa non per le elezioni libere, ma per tematiche economiche e sociali.

AM: Abbiamo alcuni segni su cosa la rivoluzione egiziana e tutte le altre insorgenze nel mondo arabo potrebbero comportare per i rispettivi paesi e in una certa misura per l’egemonia statunitense nella regione, ma quali implicazioni vedi a livello globale, se ce ne saranno? Questi eventi rappresentano in qualsiasi maniera una sfida complessiva all’ordine neoliberista in vigore?

GA: Le rivolte in corso sono l’esito dei mutamenti sociali ed economici che sono stati introdotti dal neoliberismo, è sicuro, ma non stanno ancora ponendo una sfida importante all’ordinamento neoliberista globale, e nemmeno a quello locale. Nonostante stiamo assistendo all’interno delle proteste – si pensi all’Egitto con le mobilitazioni dei lavoratori – a dinamiche che vanno direttamente contro le ricette neoliberiste, fino ad adesso ha prevalso l’aspetto democratico della lotta. Dunque la dimensione globale di questa onda d’urto è attualmente legata più alla democrazia che alle richieste sociali; il suo impatto sta addirittura raggiungendo la Cina. È ovunque debba ancora essere soddisfatta la richiesta di democrazia  che l’impatto di ciò che stiamo vedendo si sta manifestando in modo più forte. Per il futuro dovremmo aspettare e vedere.

I poteri che ci sono nei paesi arabi stanno provando a mantenere il movimento all’interno dei limiti della democrazia politica, e ad impedire che si sviluppi oltre in uno stadio sociale ed economico. C’è un potenziale importante e comunque, per ripetere la mia opinione, stiamo ancora nel bel mezzo del processo e la lotta continua ad andare avanti; alla fine potrebbe concludersi bene in una grande sfida all’ordine economico neoliberista, soprattutto in Egitto e Tunisia dove la classe operaia è uno dei fattori più importanti all’interno di questo processo.

Ali Mustafa è un giornalista freelance, uno scrittore ed un mediattivista. È anche un redattore della webzine New Socialist. Vive a Toronto. I suoi scritti sono reperibili sul sito http://frombeyondthemargins.blogspot.com/

Gilbert Achcar è cresciuto in Libano ed insegna Scienza Politica alla London’s School of Oriental and African Studies. Il suo best-seller «Scontro tra barbarie. Terrorismi e disordine mondiale» (Edizioni Alegre, 2006) è stato pubblicato in una seconda edizione ampliata, accanto ad un libro dei suoi dialoghi con Noam Chomsky sul Medio oriente, «Potere pericoloso. Il Medio Oriente e la politica estera statunitense» (Palomar, 2007). È coautore, con Michel Warschawski, di «La guerra dei 33 giorni. Un libanese e un israeliano sulla guerra di Israele in Libano» (Edizioni Alegre, 2007). Il suo ultimo libro è «The Arabs and the Holocaust: the Arab-Israeli War of Narratives», (Metropolitan Book, 2010).

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